mercoledì 17 dicembre 2008

DoubleFace LIGABUE


E’ vero - disse una volta Woody Allen -. Faccio lo stesso film da una vita, ma finché nessuno se ne accorgerà, andrò avanti». Sta andando avanti. Come Luciano Ligabue, il Re Mida. Non sbaglia un pezzo che sia uno, anche se è lo stesso pezzo da quindici anni. La sua antologia, spalmata in un anno, vende a dismisura. Ogni inedito furoreggia in radio, si parli di Buonanotte all’Italia, analcolico «j’accuse» che a conti fatti non accusa nessuno o Il mio pensiero, ennesima ballata non esente da strofe cigolanti («Pomeriggio spompo di domenica / Come fanno gli altri a stare su»).
Questo successo quasi ventennale, forse, qualche ulteriore riflessione la merita. Piace ai «ggiovani» perché sembra somigliargli. Piace alla sinistra (nonostante gli ammicchi a Beppe Grillo) perché è buono. Piace agli uomini perché è raggiungibile. Piace alle donne perché canta che loro «lo sanno», lasciando intendere che - per osmosi - pure lui è depositario dello scibile. Uno scibile mai troppo pensoso: basso profilo, vita da mediano, conformismo vociferante (ma guai a parlare di qualunquismo). Ligabue è rassicurante: nei messaggi (un vago pessimismo rasserenato dalla strofa finale), nella carriera intesa come coerente immobilismo.
Il suo sogno è essere il nuovo Battisti. Il Divino Lucio è però stato un musicista rivoluzionario, capace negli edonistici Ottanta di sbertucciare l’apparenza, rifugiandosi in quel «nowhere» che è stato il sodalizio con Pasquale Panella. Il Ligabue musicista è eversivo quanto può esserlo Veltroni. La sua spiccata riconoscibilità - dote rara - sta non nelle note ma nelle parole. Ligabue non è il nuovo Battisti: è il nuovo Mogol. Un Mogol femminista, pure lui anti-intellettuale, come lui pieno di topoi: in Mogol i «ciliegi e le libellule in un prato», in Ligabue «le cosce e zanzare».
In entrambi, riprendendo Edmondo Berselli che in Canzoni si divertì a zimbellare il Gran Mogol, «ogni gesto si eleva dal grado zero della materialità al livello della mitologia». La sua (loro) estetica «si stende fra il banale e il sublime, fra il concreto e l’astratto, fra il congiunturale e l’epocale, tra il Volo e il Terra Terra, considerando il Sacro e il Profano sempre intercambiabili». Non è un caso che prima Elisa e poi Fiorella Mannoia si siano rimesse al Gran Liga. Il nuovo singolo della Mannoia è in questo senso paradigmatico. Da una parte, l’uomo che sa che le donne lo sanno (?), dall’altra la donna che canta quello che le donne non dicono: abbastanza per cadere in coma diabetico. In Io posso dire la mia sugli uomini c’è tutto il Ligabue-Mogol: amicizia («Le mie amiche sono amare / se si parla un po’ d’amore»), generiche allusioni al contemporaneo («Qualche giorno è molto meglio»). Fino al situazionismo della solita strofa finale: «Davanti a una tazza di latte / con una coperta di troppo / appena finisce la notte / qualcosa mi inventerò». Ovvero: il dolore in cerca di lenimento (la coperta di troppo), il rifugio terreno (la tazza di latte). E una sfuocata fiducia nel futuro: quel «qualcosa mi inventerò» non è forse la versione aggiornata del «Domani è un altro giorno» di Via col vento?
La capacità prima mogoliana e ora ligabuista non è tanto l’ostentata reiterazione di se stessi, quanto l’abilità nel far scattare l’ingranaggio sinuoso della immedesimazione. Se De André inseguiva la metafora e De Gregori l’ermetismo, Ligabue è piuttosto un felice abbellitore dell’ovvio, un instancabile scrittore di canzoni che inducano il pubblico a dire: «Questa cosa è capitata anche a me». Un (bravo) ricamatore del già detto, dotato come Mogol di capacità semimedianiche nell’intuire gli spostamenti del costume. La sua canzone diviene così l’instant song della quotidianità: qualcosa di comodamente assimilabile, riciclabile. Certo, il Gran Liga è troppo garbato per autocelebrarsi come Gran Mogol. C’è poi in lui una quieta sottomissione al gentil sesso, che lo distanza dal machismo agreste di Mogol. Eppure anche il suo cilindro truccato è sostanzialmente colmo di «scarsi segreti», ciononostante abbacinanti. Sembra quasi il cilindro di Walter Il Mago. Quello che, quando faceva una magia, non stupiva nessuno. Ma tutti si fingevano stupiti, «che non ci costa nulla farlo sentire una star».

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