lunedì 9 giugno 2008

Fenomeno RADIOHEAD

Non è un caso che ormai non si scrivano solo libri sui Radiohead, ma attorno ai Radiohead. Nessuno, negli ultimi vent'anni, ha creato un radicato e duraturo senso di appartenenza musicale come la band di Thom Yorke. Nemmeno gli U2, ormai stanchi delle loro molte rivoluzioni e adagiatisi, dopo Achtung Baby, in una stucchevole reiterazione di se stessi. Se i Pink Floyd si sono limitati a perlustrare la faccia oscura della Luna in un disco, i Radiohead nell'oscurità ci vivono. La cercano, la inseguono, la ricreano. Ne traggono ispirazione, perennemente in bilico tra estasi del nichilismo e compiacimento di chi ha previsto l'Apocalisse.
I loro primi passi erano fortemente derivativi, vicini all'epica irlandese degli U2 più ispirati, e fu così - «i nuovi U2» - che vennero chiamati dopo The Bends (1995), sorta di lunga e struggente fiaba che non manca mai nelle classifiche dei «migliori dischi del XX secolo». La storia della musica, come del resto quella dell'arte, è spesso fatta di cordoni ombelicali recisi, di capacità o meno di uccidere i propri padri, e se solo adesso Chris Martin dei Coldplay sembra averne abbastanza di somigliare a Bono, i Radiohead non si sono ancora stancati di mutare, scardinare: rivoluzionare. A The Bends fecero seguire l'epocale Ok Computer, dove i migliori Pink Floyd convivevano miracolosamente con i Beatles meno spensierati. Una delle molte pentecosti armoniche dela band, un po' come se i loro volti per nulla divistici, ora increspati e ora impiegatizi, celassero una superband capace di far convivere Syd Barrett e John Lennon, Johnny Cash e Bob Dylan, David Byrne e Miles Davis.
Ai peana universali, 11 anni fa, i Radiohead hanno reagito nella maniera più difficile e necessaria: spostandosi ancora, navigando controvento. Nei dischi successivi, dalla doppietta Kid A/Amnesiac a In Rainbows, hanno tratto ispirazione da tutto ciò che era possibile e soprattutto impossibile: le onde accademiche martenot, il sistema binario, l'elettronica esoterica, la musica popolare, persino le malattie dei conigli (la mixomatosi). Hanno scritto di mostri che succhiano il sangue giovane, messo in musica Douglas Adams, fatto cantare il fisico Stephen Hawking. Si sono spinti in terre inesplorate, edificando il loro habitat in un fascinoso nowhere. Il rischio era la musica per pochi intimi, del culto snobistico della nicchia. Sono riusciti a tracciare la strada più desiderata e per questo impervia: la perfetta via di mezzo tra l'alternativismo di professione e la legittima volontà di piacere. Per questo hanno generato una sorta di discreta ma evidente «febbre Beatles»: perché non hanno mai tradito prima se stessi, poi chi li ascoltava.
Nati 22 anni fa alla Abingdon School di Oxford, avevano la stessa formazione di adesso e si chiamavano On a Friday. Cambiarono nome per volere della Emi e perché misuratamente colpiti da una canzone dei Talking Heads. Il loro primo successo, un singolo del 1992, non era che l'autoscatto di Thom Yorke, occhio alla zuava e voce ipnotica. Il brano si chiamava Creep ed era la prima volta in cui Yorke, Leopardi del rock, palesava i suoi incubi («Sono un perdente, un mostro»). Da allora è stata una cascata di note, visioni, paure. Yorke è una sorta di alieno depresso, un artista postumo di se stesso, la cui voce ancestrale e a tratti insostenibile si sposa sontuosamente con sonorità avveniristiche figlie anzitutto di Jonny Greenwood (il chitarrista). A differenza di Jim Morrison o Kurt Cobain, Yorke sembra volersi punire con una esistenza complicata e oltremodo faticosa, a fronte di una evaporazione di sé che a prima vista sembrerebbe più facilmente percorribile. Non per nulla uno dei suoi canti più dolenti si intitola How to disappear completely.
I Radiohead sono una sintesi di talento e sperimentazione, istinto, longevità e scaltrezza (anche di marketing, basta pensare al download libero con cui è stato lanciato In rainbows). Non i nuovi Pink Floyd, non i nuovi U2: i nuovi Radiohead. Un loro disco non è un ascolto ma un evento. Qualcosa con cui suggellare il tempo, misurarsi, scontrarsi. Se la musica, come ha scritto Cechov, deve essere cavatappi dell'anima, nessuna band negli ultimi anni è in grado di aprire così tante bottiglie...alla prox!

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